4 maggio 2024- C’erano una volta i quattro colonnelli della commedia all’italiana, i nostri moschettieri della risata: il mattatore Gassman, lo straripante Sordi, il ruspante Tognazzi e il più discreto Manfredi, cui si aggiungeva spesso, coi modi di un moderno Aramis, Marcello Mastroianni.
Saturnino, in arte Nino, Manfredi è stato l’ultimo a lasciare la scena, il 4 giugno del 2004, ma vent’anni dopo possiamo misurare quanto il suo stile, la sua professionalità, il suo talento creativo siano stati fondamentali per almeno quattro generazioni di cinema italiano, con modi sempre diversi dal teatro (dove si impose fin dal 1947) al cinema e alla televisione (lasciati nel 2003), passando per il teatro di rivista, la radio, la commedia musicale e la canzone, la regia, la pubblicità. La prima parola che viene in mente per definirlo è “versatilità”: sapeva fare tutto, Nino Manfredi e forse proprio questa duttilità rende difficile una sua collocazione definitiva. Era caratterista e primo attore, umorista e cantante (a modo suo), uomo del polo e raffinato intellettuale.
Per definire questa, più segreta, immagine del suo talento, bastano le regie di “L’avventura di un soldato”, folgorante episodio senza parole di “L’amore difficile” del 1962, l’autobiografico “Per grazia ricevuta” del 1971, il crepuscolare “Nudo di donna” del 1981. Una sortita ogni dieci anni, quasi a ricordare a tutti che non era soltanto un buon esecutore, ma un autore con la lettera maiuscola. Non a caso, alla fine della carriera, affidò sempre più spesso la cinepresa al figlio Luca, riservandosi partecipazioni sornione a copioni su cui aveva messo, sempre con discrezione, le mani in prima persona. Nato a Castro dei Volsci (ora in provincia di Frosinone) il 22 marzo del 1921, di famiglia contadina e ciociaro nell’animo come amava rivendicare sempre, divenne romano del quartiere San Giovanni fin dai primi anni ’30 seguendo il padre poliziotto, la mamma e la sorella minore.
Per far contenta la mamma si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza laureandosi nel 1945, ma aveva già le idee chiare sulla sua vera vocazione, tanto da diplomarsi all’Accademia d’arte drammatica nel 1947 per debuttare lo stesso anno sotto la guida di Orazio Costa nella compagnia Gassman-Maltagliati, misurandosi su testi della moderna drammaturgia. Da bambino aveva trascorso un lungo periodo in sanatorio per tubercolosi e a qual periodo faceva risalire la sua passione per la musica e il palcoscenico. Di tutto questo si troverà traccia in “Per grazia ricevuta”, ma la gavetta del giovane Saturnino passa prima per il gran teatro (con Strehler e Eduardo già alla fine degli anni’40), la rivista radiofonica (con Paolo Ferrari e Gianni Bonagura su testi mi Marchesi, Metz, Verde), la commedia leggera. Il debutto al cinema è datato 1949 con il modesto “Torna a Napoli” di Domenico Gambino, ma dovrà aspettare il 1955 per trovare una sua precisa definizione attoriale grazie a maestri come Antonio Pietrangeli e Mauro Bolognini, Alla stessa data è legato il suo matrimonio con Erminia Ferrari, rimasta sua moglie fino alla fine, e al successo nella commedia musicale che diverrà travolgente con “Un trapezio per Lisistrata” (1958) e “Rugantino” (1962) sempre a firma Garinei&Giovannini. In televisione infine, grazie proprio alla sua versatilità di intrattenitore, divenne popolare nel 1959 con “Canzonissima” col celebre tormentone “Fusse che fusse la vorta bbona” del barista di Ceccano.
Con gli anni ’60 diventa attore con la lettera maiuscola e la lista dei suoi film indimenticabili si allunga a dismisura. Per citarne solo alcuni: “L’audace colpo dei soliti ignoti” (a firma dell’amico Nanni Loy che gli avrebbe offerte più di un ruolo memorabile), “La parmigiana” di Pietrangeli, “Anni ruggenti” di Zampa, “Operazione San Gennaro” di Risi, “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni in cui diede un volto, per la prima volta, al feroce epigrammista antipapista Pasquino. Ma è nel decennio successivo che la sua impronta inconfondibile si incide nella storia del cinema italiano: “Girolimoni” (1972), “Pane e cioccolata” e “C’eravamo tanto amati” (1973), “Brutti sporchi e cattivi” (1976), “In nome del Papa Re” (1977), senza contare l’indimenticabile Geppetto della serie “Pinocchio” di Luigi Comencini per Raiuno (1972) e il successo come cantante in vetta alla hit parade nel 1970 con “Tanto pe’ canta’” da un classico di Petrolini.
Dagli anni ’80 in poi la sua carriera si orienta sempre di più sulla tv con serie di grande successo come “Linda e il brigadiere”, la pubblicità (memorabile il successo in uno spot al caffè), le apparizioni come ospite canterino al Festival di Sanremo, fino al suo congedo dal grande schermo con lo smemorato di “La fine di un mistero” di Miguel Hermoso e dalla tv con “Un posto tranquillo” diretto dal figlio Luca nel 2003, poco prima che un violento ictus lo colpisse. La sua vena vernacolare, esaltata al meglio in un capolavoro come “Straziami, ma di baci saziami” di Dino Risi (1968) lo rese idolo di un cinema italiano che parlava al mondo ma in qualche modo sembrò chiudergli la porta al successo internazionale, complice anche una sua certa riluttanza ad abbracciare le grandi produzioni estere; ma film come “Il padre di famiglia” di Nanni Loy o lo stesso “Pane e cioccolata” di Franco Brusati dicono bene quanto ricco di sfumature fosse il suo repertorio di grande professionista, spesso incline all’understatement e alla malinconia.
Vincitore di moltissimi premi nazionali e del Premio a Cannes per il miglior esordio con “Per grazia ricevuta”, Nino Manfredi resta legato comunque soprattutto a quella romanità universale, cinica in apparenza, appassionata in segreto, che Luigi Magni seppe disegnargli addosso per quasi tutta una carriera che li vide gemelli: autore l’uno e interprete l’altro di una Città Eterna che conserva la memoria del tempo. Fonte: Ansa.it
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