Il lungometraggio di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza fa sparire l’ex superlatitante nell’oblio, condannandolo alla solitudine e all’anonimato, tagliandolo fuori dal mondo che lo circonda: vive (anzi, esiste) al buio anche quando c’è il sole
Non è usuale ai giorni nostri riempire le sale dei cinema. In fondo viviamo in un’epoca dove lo streaming e le app dedicate dominano la scena, è sufficiente rimanere sdraiati sul divano ed usare il telecomando. Ma negli ultimi 2 anni, dopo il lockdown dovuto alla pandemia, qualcosa è cambiato, con parte del popolo che è tornato ad apprezzare la proiezione all’interno della sala cinematografica. Ne ho avuta (l’ennesima) conferma poche ore fa, quando mi sono recato al cinema per godermi “Iddu – L’Ultimo Padrino”: presentato alla Biennale del Cinema di Venezia, il film è ispirato all’ex superlatitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Nel 1993 il boss di Castelvetrano (provincia di Trapani, dove esercitò il proprio ruolo di capomafia) venne inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo, dove sarebbe rimasto fino al 16 gennaio 2023, quando i carabinieri lo catturarono all’ingresso della clinica Maddalena di Palermo dopo 30 anni complessivi di latitanza. La Sicilia, terra segnata dalla mafia, visse un momento di liberazione e festa: la gente si ritrovò a piangere di gioia per la fine di un’era di paura e omertà.
Iddu – L’Ultimo Padrino: la recensione
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, registi siciliani, hanno cercato di proiettare Messina Denaro nelle sale cinematografiche, e lo hanno fatto con uno stile completamente nuovo rispetto ai temi di mafia. Non si tratta di un’opera incentrata sulla sua figura storica o sulla cronaca, anche perchè ne sappiamo veramente pochissimo: le indagini andranno avanti per decenni, potrebbero servire diverse generazioni di inquirenti per scoprire i dettagli sulla vita e le azioni dell’ex superlatitante di Cosa Nostra. L’obiettivo dei registi, io credo, è stato un altro: declassarlo. Non è stato un tentativo di mitizzazione (come dicono i più critici del film), anzi: i registi hanno posto l’accento sulla sua solitudine, sulla sua incarcerazione auto-imposta, sull’esilio volontario. Insomma, un fantasma invisibile, anche per se stesso.
Nel film, Messina Denaro (interpretato magistralmente da Elio Germano) raramente esce fuori di casa, ospite di una misteriosa donna, il cui ruolo sarà chiaro solo alla fine. Le persiane sono abbassate h24: anche se fuori c’è il sole, il boss vive al buio, senza vedere nessuno e nascondendosi in una stanza segreta al primo accenno di rischio. Si concede – come lui stesso dice nel film – un’ora d’aria in giardino, come i galeotti. Non ci vedo nessun rischio nel fatto che, tramite Iddu, Messina Denaro possa diventare un modello da seguire: chi vorrebbe vivere come un fantasma, recluso, nell’oscurità, senza nessunoaccanto? Passa le giornate a giocare alla playstation o, per passare il tempo, nel completare un immenso puzzle, ed impazzisce quando scopre che gli manca un solo pezzo: una metafora della sua esistenza, dato che il pezzo mancante di fatto è se stesso.
Ora, io non so se l’ex superlatitante vivesse davvero così. Anzi, c’è chi dice addirittura che girasse indisturbato per strada, protetto dal clima dell’omertà che lui – insieme a Cosa Nostra – ha creato. Ma, anche fosse questa la verità, è importante ai fini del film: Iddu è un’opera di speranza e realtà allo stesso tempo, che ci mostra cosa significhi (o cosa dovrebbe significare) essere un latitante nella vita di tutti i giorni. E’ come un monito: chi sceglie questa vita, fa questa fine. Insomma, altro che mitizzazione: è un film di protesta che lo declassa, lo fa sparire nell’oblio, nell’anonimato, completamente tagliato fuori dal mondo che lo circonda. Ed anche la fine del film – che non anticipo – è incentrata sulla solitudine, la quale sarà utilizzata come arma di vendetta.
A proposito di questo, bisogna porre l’accento anche sul ruolo di Catello Palumbo (interpretato da Toni Servillo), un politico condannato per concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Dopo essersi fatto 6 anni di galera torna in libertà, ma è solo una questione fisica: non ha più nulla, ha perso tutto. Qui entrano in gioco i servizi segreti, i cui metodi sono oscuri dall’inizio fino alla fine – come se avessero un piano ben più ampio, ben oltre la singola cattura di Messina Denaro – lo prelevano per chiedergli aiuto nell’arrestare il boss. Palumbo inizialmente tentenna, non vuole fare “la spia” come dicono i mafiosi. Ma dopo aver capito di aver perso tutto, compresi dignità e potere, decide di collaborare a pieno regime, iniziando anche una corrispondenza epistolare con il figlioccio Messina Denaro (da qui, probabilmente, il nome “Padrino”), tramite l’utilizzo di nomi falsi. Tramite i pizzini, Palumbo cerca di toccare l’unico tasto dolente di Messina Denaro, che potrebbe farlo uscire allo scoperto: la morte del padre, da cui Matteo ha ereditato il trono criminale.
Insomma, complessivamente, credo sia un gran bel film. C’è poca azione, anzi per niente. Ma faccio un invito: non credete che il lungometraggio sia una rappresentazione della storia, come in qualche modo suggerisce la pellicola prima dell’inizio. Gli autori si sono presi tante libertà, storia e cronaca sono ben altro. Ma si ponga l’accento su come la figura di Messina Denaro, e quindi di tutti i mafiosi, sia stato declassato. (Foto labiennale.org – Sito Web Ufficiale della Mostra Biennale del Cinema di Venezia)
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