Jannik Sinner non si nasce, si diventa. Con il duro lavoro, la passione, l’abnegazione. Ma anche con un pizzico di follia, il cui confine con la genialità è sempre molto sottile. Già, perchè nessuno nasce Jannik Sinner. Al massimo si nasce Federer, ma è un caso su un milione. Per tutti gli altri, esiste il lavoro a testa bassa, ma con gli occhi rivolti verso l’alto. Quelli dei sognatori in grado di rimanere con i piedi per terra.
Si potrebbe riassumere in queste poche righe l’opera “Diventare Sinner“. Un capolavoro sportivo e di vita, e non poteva essere altrimenti viste le firme. Enzo Anderloni (giornalista professionista, già direttore della rivista Il Tennis Italiano, scrive per SuperTennis.tv ed è responsabile delle pubblicazioni e del Centro documentazione della Fitp), Michelangelo Dell’Edera (direttore dell’Istituto Superiore di Formazione della Fitp, responsabile del Settore tecnico nazionale under 16 e team manager della squadra italiana di Coppa Davis) ed Alessandro Mastroluca (giornalista e scrittore, responsabile dei siti internet della Fitp).
Diventare Sinner: la recensione
Il volume edito da Giunti Editore in collaborazione con la Fitp ci fa scoprire, oltre che Sinner, soprattutto Jannik. Serio e glaciale in campo, alla mano e piacevole fuori. Un mix tra lo stacanovismo austro-tedesco, appreso a San Candido e Sesto e la leggerezza e spavalderia italiana. Accoppiata vincente, forse imbattibile.
L’opera è un viaggio nella vita di quello che, prima di diventare il tennista italiano più forte di sempre – e non può far altro che migliorare -, era un semplice ragazzino come tutti, dalla folta chioma rossa. Figlio delle montagne dell’Alta Pusteria, proviene da una famiglia di umili origini: mamma è Siglinde una cameriera, papà Hanspeter un cuoco, entrambi lavorano in un rifugio del Trentino Alto-Adige. Persone toste, che sgobbano per portare la pagnotta a casa e provvedere al benessere di Jannik e del fratello Mark, adottato quando aveva solo 9 mesi. Sono proprio loro i primi a cui Sinner, ancora oggi, dice grazie dopo ogni suo trionfo. Perchè ancor prima d’imparare il dritto, il rovescio, il servizio e tutti gli altri colpi del suo vasto repertorio, da loro ha imparato i valori: la straordinaria educazione (ormai una perla rara) la cultura del lavoro, il sacrificio, la gratitudine. E, soprattutto, la libertà.
Già, la libertà. E’ questo il tema che, in assoluto, mi ha colpito di più. In un’epoca dove i genitori vogliono decidere per i figli – anche se in buona fede -, loro hanno lasciato che fosse Jannik a decidere del suo futuro, nonostante avesse solo 14 anni. Non gli hanno tarpato le ali, non gli hanno impedito di sognare, di scoprirsi. Cosa sempre più rara di questi tempi. Ci si è improvvisamente scordati che, per emergere in qualsiasi settore della vita, il fattore principale è la passione. E’ lei che mobilita animi, cuori, gambe, testa. E’ quella che ti fa svegliare al mattino con uno scopo. Senza di lei, non si va da nessuna parte. E se alla vita togli la passione, che vita sarebbe? Mi piace pensare che tutto ciò i consorti Sinner, gran lavoratori, lo abbiano capito prima di chiunque. Ecco perchè hanno lasciato che fosse Jannik a decidere di andarsene via di casa a 14 anni per inseguire il sogno del tennis, nonostante fosse già campione nazionale di sci. Poteva diventare l’erede di Alberto Tomba (e nell’immaginario collettivo c’è riuscito), ma ha preferito…diventare Sinner.
Il filosofo romano Seneca scrisse: “La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione“. Ci è arrivato con qualche secolo d’anticipo. Le vittorie non vengono mai da sole. Sono il frutto di tutto ciò che, di solito, non si vede. Non solo nel tennis, ma anche nella vita quotidiana. Sono il frutto dell’intraprendenza, dell’audacia, del coraggio, dello studio, della voglia di fare, del mettersi in gioco. Poi, certo, c’è anche la componente fortuna. Ma quest’ultima gioca agli audaci, bussa solo alla porta di chi ci prova.
Ecco, mi piace sottolineare questo: ovvero che l’opera non è solo un inno a Jannik Sinner, ma un libro in cui chiunque può, anzi deve, sentirsi coinvolto. Sinner non è nato Sinner, lo è diventato, come detto all’inizio. Non è stato baciato dalle divinità dello sport, dal fato o dalla fortuna. Si è preso tutto lui, grazie ad una famiglia che lo ha cresciuto con sani valori e senza pressioni, circondato dalle persone giuste (come Riccardo Piatti e Massimo Sartori), mobilitato dalla passione, cosciente delle proprie potenzialità e allo stesso tempo umile, passando le ore sui campi da tennis e facendo scelte difficili. Intendiamoci: non significa che chiunque faccia ciò, diventerà il nuovo numero 1 del tennis mondiale o vincerà gli Australian Open e chissà cos’altro. Ma certo è il motore che può spingere verso i propri massimi risultati nella vita quotidiana: ad ognuno il suo Slam. E’ questo il messaggio.
Me la sono tenuta per ultima, ma non per importanza. Anzi, forse gliene do anche troppa. Cosa differenza un campione da un quasi campione? Spesso e volentieri, la capacità di reagire alla sconfitta. Quest’ultima è dolorosa, bruciante, non piace a nessuno. Ma quando arriva, bisogna accettarla. Prima di diventare il numero 1 al mondo, Sinner ne ha perse decine e decine di partite. Perchè? Perchè non si può vincere sempre.
Ci sono anche gli altri con cui bisogna fare i conti, situazioni che non siamo ancora in grado di gestire, tentativi che vanno a vuoto. Ma le sconfitte servono anche più delle vittorie. Quest’ultime durano poco, sono istantanee, te le godi nel giro di un attimo. Le sconfitte, invece, penetrano l’anima. Ci permettono, anzi ci costringono a guardarci dentro. Ma poi, dopo quella partita persa, ce n’è un’altra. E se si perderà anche quella, ci sarà quella dopo. E prima o poi, la vittoria arriva. Nel tennis, certo, dove a volte è una questione di nastri: una pallina che casca di qua o di la, cambia i destini, le carriere, a volte anche le vite. Ma il discorso vale anche per l’esistenza quotidiana. Ci sarà sempre una sconfitta sul lavoro, in amore, in amicizia, nello sport in generale, ovunque. Si perde molto più di quanto si vince. Ma poi, la vittoria arriva. Ed è molto più saporita e gustosa.
Sinner ne è la dimostrazione lampante. La sua bestia nera era Danil Medvedev, un campione di cui si parla sempre troppo poco. Il russo, a Jannik, lo faceva impazzire. Era un tabù. Sinner ha battuto Medvedev per la prima volta all’ATP 500 di Pechino, dopo averci perso 6 volte di fila. Poi lo ha battuto anche a Vienna, Rotterdam e, soprattutto, nella finalissima di Melbourne. Perchè nel tennis, come nella vita, succede questo: a volte si vince, altre si perde. Ma l’importante è lasciare tutto sul campo, consapevoli di aver dato il meglio di se. Tutto il resto, sarà una conseguenza.