Foggia – Tre fiammelle che galleggiavano su un lago. Sulla riva, dei buoi inginocchiati. E’ questa la scena a cui parteciparono alcuni pastori, poco meno di mille anni fa, nel luogo dove oggi sorge la città di Foggia. Un vero e proprio prodigio secondo la tradizione: sotto quelle tre fiammelle galleggianti (che tuttora sono raffigurate nello stemma del Comune), avvolto in sette drappi, quei pastori trovarono un quadro raffigurante la Vergine Maria con in braccio un Bambinello.
Un’immagine antica (da qui il nome Iconavetere), tratta in salvo dalle acque in quel torrido 13 agosto di dieci secoli fa, che fu da subito oggetto di venerazione tanto che attorno al luogo dell’apparizione vennero pian piano costruite case e abitazioni, fino a diventare quella che nel medioevo era chiamata la città di Santa Maria de Fovea.
Il lago è oramai prosciugato, e sul punto del ritrovamento del Sacro Tavolo vi è una fontana circondata da tre alte palme a ricordo di quel giorno che suggellò il natale della città. Poco distante sorge una maestosa cattedrale barocca. Ricostruita più volte nel corso dei secoli, custodisce, in una cappella, l’immagine della Madonna dei Sette Veli, così chiamata perché, ancora oggi, avvolta da sette drappi che celano all’occhio umano quello dolce della Vergine Maria.
Nel capoluogo dauno, in questi primi giorni di agosto, si respira un’aria frizzante. Molti residenti sono fuori per trovare riparo dalla canicola lungo le meravigliose spiagge del Gargano, dove il blu cristallino del mare bacia il bianco delle rocce del promontorio. Eppure, al suono delle campane, l’antica cattedrale si riempie.
La festa è vicina e bisogna prepararsi. Il primo appuntamento è la tradizionale “vestizione” e la “salita” sull’altare maggiore. Da anni il rito non cambia: al termine della messa, dieci giorni prima del 15 agosto, mani attente aprono la teca della cappella laterale che custodisce il tavolo. Il profumo di incenso inizia a riempire la chiesa. Chi ha qualche anno in più si inginocchia, i più giovani tirano fuori il telefono per immortalare il momento che, da secoli, si ripete ogni anno.
Con una piccola processione l’Iconavetere viene portata sull’altare maggiore. Qui, tra canti e preghiere, viene “spogliato” dei decori di stoffa e rivestito con una custodia d’argento risalente al 1700. Modellata dai migliori argentieri napoletani dell’epoca, fu un dono dei foggiani per omaggiare la loro patrona che, dopo un devastante terremoto, apparve nell’oblò scuro che la copriva promettendo ai suoi figli che la città non sarebbe stata mai più distrutta da un sisma. E, a distanza di tre secoli, Foggia ne ha vissuti di terremoti. Ma la promessa della Vergine è stata mantenuta.
Sulla custodia d’argento risalta agli occhi un altro dono dei foggiani: una corona d’oro con una piccola M al centro. A porla sul “capo” della Madonna fu Giovanni Paolo II, che nel maggio del 1982, in Vaticano, riparò così all’offesa del 1977, quando alcuni ladri, rimasti ignori, trafugarono la corona originale.
La teca viene quindi portata dietro l’altare maggiore e, mentre le campane suonano a festa, il quadro, grazie a un macchinario, sale fin sopra ai marmi, tra gli applausi e le preghiere. Per dieci giorni resterà lì in alto, pronto ad abbracciare i tanti cittadini che, durante la novena, accorrono in Cattedrale per salutare la loro patrona.
Il grande appuntamento è però alla vigilia dell’Assunzione: il 14 agosto, la Madonna dei Sette Veli viene portata in processione per le strade della città, calando la città in un’atmosfera densa di raccoglimento. Tra i vicoli antichi e le piazze, l’Iconavetere viene fatta sfilare tra due ali di folla festante. Poi il rientro in Cattedrale per una nuova “salita”. Il 15 agosto, il Duomo si riempie: sono tanti i cittadini che, proprio per omaggiare la loro mamma celeste, rientrano dal mare.
E, come accade al Sud, ogni festa ha il suo piatto tipico. Dunque, dopo aver pregato e soddisfatto lo spirito, sulle tavole dei foggiani, il pranzo di Ferragosto è all’insegna del galluccio, al forno o al sugo.
Foggia, legata fin dalla sua nascita all’agricoltura e il gallo è il simbolo della tradizione popolare contadina. In passato la sua preparazione era per le famiglie un momento solenne.
Nei tempi più antichi la carne era un privilegio per pochi, e per le famiglie più povere solo nelle feste potevano permettersi di spendere qualche soldo in più per la carne. E la scelta ricadeva sempre sul gallo. Un gallo che però doveva avere dei precisi requisiti: pesare almeno 3 chili, avere le zampe nere, e doveva essere allevato a terra.
La tradizione vuole che lo si cucini al sugo, ma molti optano per la variante al forno. Di norma, però quello che accomuna le due versioni è il ripieno, che può variare a seconda dei gusti: c’è chi preferisce una frittata con formaggio (pecorino o caciocavallo), pinoli e uva passa.
Qualcuno lo preferisce “classico”, senza troppi aromi. Di certo c’è che la famiglia torna a riunirsi per condividere un momento di festa. Festa che, quest’anno, dopo due anni di stop dovuti al Covid, torna a celebrarsi in maniera pubblica e che si concluderà col tradizionale spettacolo pirotecnico dal pronao della Villa Comunale.
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